Quando inizia la diretta, il vantaggio delle quattro fuggitive sul gruppo è di ben undici minuti e i chilometri che mancano all’arrivo sono solo 38. L’ultimo tratto della Omloop Het Nieuwsblad femminile prevede sì ai -15 km l’iconico “Muur“, con tanto di basilica in cima alla salita a sintetizzare la ciclistica misticità dell’ascesa, ma il duo Pesaneschi-Lazzaro, che commenta per Discovery+, avverte già che le big non ce la faranno a rimontare. Spiega poi che il distacco è lievitato perché a un certo punto e per un bel po’ di tempo sono saltate le comunicazioni radio e le ammiraglie non sono riuscite a comunicare alle varie Vollering, Wiebes, Balsamo che il gruppo doveva cominciare a tirare, se le voleva riprendere. Insomma, è come se dal 2025, era del ciclismo tecnologico in cui si calcola tutto per non sprecare un grammo di energia in più e vincere lo stesso, il plotone fosse ripiombato negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando azzeccando le fughe giuste si poteva addirittura sperare di vincere una grande corsa a tappe. 

Bidoni e burloni.
Rino Negri, giornalista da 42 Giri e 39 Tour in carriera, memoria storica della Gazzetta, scriveva nel luglio del 1999 che il termine “échappée bidon” -in italiano “fuga bidone“- era stato coniato dai francesi in occasione della vittoria di Albert Bourlon nella tappa numero 14 del primo Tour de France del Secondo dopoguerra. Era l’11 luglio del 1947, la frazione andava da Carcassonne a Luchon, 253 km in tutto; il ciclista transalpino partì al primo metro di corsa, il gruppo lo lasciò andare e lo rivide solo al traguardo. Bourlon era a Luchon già da 16’30”.

La Gazzetta del giorno dopo ignorò in modo quasi sprezzante l’impresa del francese, perché era un “regionale”. All’epoca, infatti, le squadre che partecipavano al Tour erano diretta emanazione di una nazione (vedi Francia, Italia, Belgio) o accorpavano corridori di più nazioni (vedi la squadra Svizzera-Lussemburgo); poi c’erano quelle che rappresentavano le varie zone della Francia1. Bourlon, in particolare, era nella squadra del Centro/Sud-Ovest e, visto che non correva per la sua Nazionale, era ritenuto non così bravo da poter ambire alle posizioni alte della classifica finale. 

Ai francesi piacque, invece, l’idea che… un burlone avesse preso e se ne fosse andato, subito, al pronti-via e avesse poi vinto la tappa. Era poi era l’immediato dopoguerra, la gente aveva bisogno di storie che facessero sorridere. Ora, non so perché si preferì il termine “bidon” a “burlon”2, né tanto meno sono riuscito a capire quando fu veramente usata per la prima volta l’espressione “échappée bidon”. Ad ogni modo, anche in italiano c’è la locuzione “tirare un bidone” e, quindi, perché ai cronisti francesi quello di Bourlon sembrasse un “bidon” tirato agli avversari è facile capirlo.
Un “bidon” che, però, non aveva sconvolto la classifica e da qui sarebbe nato un equivoco linguistico: perché per gli italiani la vera fuga bidone sarebbe diventata quella che porta, in modo del tutto inatteso, lo sconosciuto fuggitivo a lottare per il successo finale. Indipendentemente se in fuga ci era andato da solo.

Lo svizzero italiano e il francese polacco.  
Scriveva sempre Rino Negri nell’articolo già citato che

La fuga bidone che destò più scalpore al Tour fu però quella che ebbe per protagonista Roger Walkowiak

Ancora l’11 luglio, ancora un francese, ancora un regionale. Stavolta, però, la fuga è molto partecipata: furono, infatti, 31 i ciclisti che nella settima tappa del Tour del 1956 presero il largo e arrivarono con 18’46” di vantaggio sul gruppo. Walkowiak, rappresentante della Nord-Est/Centro, fu 19° al traguardo e conquistò la maglia gialla.
In quel periodo, Kopa e gli altri figli degli immigrati polacchi arrivati in Francia dopo la fine della Grande guerra per lavorare in miniera stavano facendo le fortune della Nazionale di calcio transalpina e di club come lo Stade Reims; al pari loro, il franco-polacco Walkowiak seppe sfruttare al meglio l’occasione della vita e, dopo aver perso il simbolo del primato in favore di altri compagni di quella fuga, lo riconquistò nella tappa 18. Nella frazione alpina che arrivava a Grenoble non si fece staccare da Bahamontes, il più pericoloso dei big rimasti in lizza per il successo finale, e staccò, invece, altri che sulla carta erano più forti di lui in salita.
Morale, dalla échappée della tappa 7 era scappato fuori il vincitore del Tour! Alla faccia di tutti i componenti della Nazionale francese.

Il Giro d’Italia, due anni prima, aveva vissuto una situazione simile. Lo zurighese di origini italiane Carlo Clerici aveva vinto la Napoli-L’Aquila, in volata su Assirelli, dopo una lunga fuga di 220km guadagnando quasi 25′ sui ciclisti più accreditati per il successo finale, tra cui Coppi, Nencini, Koblet. Quel giorno aveva indossato la maglia rosa e, quantunque si fosse trattato solo della sesta tappa sulle 22 previste, l’aveva portata fino a Milano senza particolari patemi. Al velodromo Vigorelli i tifosi italiani avevano fischiato i big che non si erano certo dannati per rincorrerlo, ma poco conta: Clerici aveva vinto il Giro grazie a una fuga che aveva preso una piega imprevista per la classifica finale!

Fughe bidone più recenti. 
Neanche per Clerici e Walkowiak sono riuscito a capire se negli articoli del tempo era utilizzata l’espressione “fuga bidone”, che, comunque, a metà degli anni Settanta, era entrata nel lessico abituale. Come dimostra il titolo dell’articolo della Stampa del 27 giugno 1974 qui riportato.

 

Pertanto, sono sin da subito etichettate come fughe bidone, giornalisticamente parlando, quelle che proiettano l’ancora poco noto Claudio Chiappucci e lo sconosciuto Oscar Pereiro Sio sul secondo gradino del podio a Parigi, rispettivamente, nel 19903 e nel 2006.4 Da notare che lo spagnolo otterrà il successo a tavolino qualche mese dopo, per la squalifica per doping di Landis, e per questo la sua non sarà mai davvero considerata una “vittoria alla Walkowiak”.
Ora, però, è tempo di tornare alla Omloop femminile. 

Claes e Kiesenhofer. 
Proprio sul “Muur” il gruppo delle fuggitive si divide: la belga Lotte Claes e la polacca Aurela Nerlo salutano Elena Pirrone e Mieke Docx. Claes ha 31 anni, Nerlo 27; non hanno successi di rilievo in carriera e la loro massima aspirazione in una classica valida per l’UCI Women’s World Tour era quella di farsi trovare in fuga nel momento in cui sarebbe iniziata la diretta TV: così, le telecamere le inquadravano per un po’ facendo la felicità degli sponsor. E, invece, le due arrivano fino in fondo e si giocano il primo posto in una lunga, lunghissima volata. Vince Claes, Nerlo è seconda; la prima delle big, Vollering, arriva dopo 3′.
Ma, a parte la suggestione da ciclismo “eroico” data dall’assenza delle comunicazioni radio, si può parlare davvero di vittoria di una fuga bidone alla luce dei casi emblematici rievocati quissù?

Dopo lungo confronto tra me e me stesso, propendo per il sì. Innanzitutto, perché ritengo difficile che, allo stato attuale, un/una Carneade riesca a vincere un grande giro grazie al vantaggio accumulato in una singola tappa in cui il gruppo lascia troppo fare. Mi viene in mente la Vuelta maschile del 2024 e la scientificità con cui Primož Roglič ha rosicchiato a O’Connor il vantaggio da questi accumulato grazie a un’azione solitaria nella sesta tappa: e O’Connor è un outsider, un corridore da primi dieci posti in classifica, non un Bourlon qualsiasi.
In secondo luogo, perché chi si allinea al nastro di partenza di una classica lo fa per vincere e fa rabbia se alla fine il successo va alla Claes di turno per distrazione collettiva o perché nessuna squadra vuole iniziare a tirare. Anche per una questione di premi in denaro non incassati.

Se poi, perché una fuga bidone vada in porto, è fondamentale il black out della tecnologia, è un’altra questione. Di certo, nella prova in linea dell’Olimpiade di Tokyo nel 2021 l’austriaca Anna Kiesenhofer è riuscita a tirare un bidone a Van Vleuten e colleghe anche perché ai Giochi i commissari tecnici non possono parlare con le atlete per radio.

Nell’immagine in evidenza: Kiesenhofer taglia il traguardo e vince l’oro olimpico