Qui la prima parte.

In nome della fair competition.
Sulla vicenda della mezzofondista sudafricana intersex Caster Semenya o su quella della nuotatrice M2F Lia Thomas mi sono soffermato spesso, mettendo in luce come in ambito sportivo sia loro negato, in primis, il diritto a essere riconosciute per quello che sono. E parlare di diritti negati è centrale in un momento in cui nella “vecchia” Europa ottengono sempre più spazio partiti e movimenti politici che fanno degli attacchi ai “diversi” una loro bandiera, siano essi migranti o persone LGBTQIA+. Basta vedere quali e quanti haters illustri hanno attaccato sui social nel corso dell’estate 2024 la pugile Imane Khelif o la velocista Valentina Petrillo, che -ricordo- avevano tutto il diritto di gareggiare a Parigi perché non violavano le regole fissate, rispettivamente, da CIO e ICP. 

Ai nomi di Semenya e Thomas si possono aggiungere quelli delle due giovani velociste namibiane Mboma e Masilingi che, dopo Tokyo 2020, sono state fatte fuori da qualsiasi possibilità di competere ad alti livelli perché per World Athletics il loro livello di testosterone naturale è divenuto fuori legge anche per correre i 200m 1. C’è poi la sollevatrice Laurel Hubbard, la prima atleta transgender a cinque cerchi, che dopo l’Olimpiade giapponese si è ritirata, ma che, comunque, non avrebbe potuto partecipare a Parigi 2024 perché, nel frattempo, la International Weightlifting Federation (IWF) ha stabilito che chi non ha compiuto la transizione M2F prima della pubertà non può partecipare a gare femminili.

Tutte queste atlete sono state escluse dalla categoria donna in nome della fair competition, della competizione equa che, per gli organi sportivi di riferimento, in loro presenza non sarebbe garantita, visto il vantaggio che darebbe loro una transizione in età adulta o una concentrazione elevata di testosterone nel sangue, benché naturale.
In questo articolo, però, non voglio nuovamente affrontrare questioni inerenti il diritto che ogni persona ha di essere riconosciuta, in ogni ambito sociale, in base al genere cui si sente di appartenere (o di essere riconosciuta come al di fuori della gabbia del genere, vedi la mezzofondista statunitense Hiltz). Questa volta, voglio sfruttare l’effetto Paralimpiade per mostrare come, in realtà, il CIO avrebbe da tempo una via da battere per risultare più inclusivo nei confronti di chi è ritenuto non standard

Una competizione per classi diverse di disabilità.
Quando si parla di specialità paralimpiche (magari perché c’è da segnalare una nuova vittoria azzurra), anche per i siti specializzati fare titoli corretti al 100% non è facile. Ad esempio, il 7 settembre 2024 Skysport annunciava:  

Paralimpiadi, oro Caironi nei 100 metri

Ora, Martina Caironi all’oro è (quasi) abbonata dal 2012 ed è una delle atlete paralimpiche più conosciute in Italia, partecipa a seminari, conferenze motivazionali e va spesso nelle scuole a raccontare la sua storia. Però, ci sono altre dodici velociste al mondo che -come lei- possono a ben diritto affermare di aver vinto i 100 metri alla Paralimpiade parigina, semplicemente perché erano tredici le finali femminili su quella distanza, una per ciascuna delle categorie in cui le sprinter sono attualmente divise.2

Sul sito ufficiale del CIO è spiegato a cosa serve e come funziona il sistema di classificazione. Anche qui si parla di garantire una «fair competition between all athletes». L’impatto, che ha ciascuna disabilità, può variare da sport a sport e da una specialità a un’altra, all’interno della stessa disciplina; coloro che hanno disabilità ritenute paragonabili, pur se classificate in modo diverso, possono essere fatti rientrare in un’unica categoria.
Cosa succede quando ciò accade? Nel ciclismo su pista, nella prova del km da fermo, corridori e corridrici di tre classi diverse (C1, C2 e C3) si contendono lo stesso titolo paralimpico, ma c’è un meccanismo che prova a bilanciarne le prestazioni. Più basso è il numero della classe di appartenenza, maggiore è il grado di disabilità: quindi, paresi, emiplegie, amputazioni sono più gravi in chi è di classe C1, meno gravi in chi è di classe C3. Per questo il tempo fatto registrare da un/una C3 vale come tale, mentre si applicano dei fattori di riduzione a chi è di classe C2 e C1 (rispettivamente, 94.50% e 92.01%). Il risultato è che con 1’04″825 Jaco van Gass (C3) è finito dietro Li Zhangyu (C1) che ha fatto segnare un crono superiore, 1’08″993, ma che al netto della riduzione, equivale a un 1’03″480.

Meccanismo complesso? Troppo agevolati quelli di classe C1? La questione importante, per l’analisi che sto conducendo, è un’altra: quella appena illustrata è una regola stabilita a monte da medici e tecnici del Comitato paralimpico, gente che si occupa del sistema di classificazione e che, evidentemente, a seguito dei dati raccolti, ritiene tutto questo fair. Ora, se è lecito “aiutare” chi ha una disabilità più grave per far sì che il gioco sia più equo, perché il CIO non agisce al contrario con chi ritiene abbia un unfair advantage?

Non mi riferisco solo alle Semenya, alle Mboma o alle Thomas, ma anche al saltatore in lungo Markus Rehm, della cui vicenda ho parlato più approfonditamente nella prima parte: ebbene, a lui fu impedito il confronto con i “normodotati” perché, secondo la stessa sua federazione, traeva un illecito vantaggio dalla sua protesi.    

Magari, conducendo degli esperimenti ad hoc, esperti nominati dal Comitato olimpico potrebbero misurare/dare un valore al supposto vantaggio che viene imputato a Rehm (rispetto ai saltatori in lungo “normodotati”) o a Mboma (rispetto alle velociste che hanno un livello di testosterone considerato standard). E, quindi, applicando degli opportuni fattori di conversione, stabilire -sparo a caso- che un 8.50m di un amputato con protesi vale quanto un 8.15m di un “normodotato” o che un 22″80 sui 200m di una donna con una concentrazione di testosterone nel sangue maggiore di 2.5 nanomoli per litro vale quanto un 23″45 di una che ne ha meno di 2.5.

Quanto si può davvero sperare che tutto ciò possa anche solo essere preso in considerazione in futuro? Poco. L’onere di dimostrare che non si gode di un vantaggio è sempre toccato a chi è divers@ e gli organismi che governano le varie discipline sportive non si sono mai preoccupati di condurre studi autonomi sulle questioni emerse via via. Hanno agito sempre e solo ex post, spesso imponendo divieti, altre volte sbandierando una inclusività di facciata che vale fino a che le regole non vengono rese ulteriormente stringenti.
C’è poi un altro ostacolo. Utilizzare fattori di conversione potrebbe voler dire che la persona che taglia per prima il traguardo o che fa il salto più lungo non è la vincitrice. Tutto ciò potrebbe essere ritenuto da CIO e soci un elemento a danno dello spettacolo, della fruibilità televisiva dell’evento, del ritorno economico degli sponsor. Del resto, mi sembra che nella stessa atletica paralimpica si sia tornati indietro in alcune specialità: a Londra 2012, nel salto in lungo F44, gara che consegnò il primo titolo paralimpico a Rehm, ogni salto era trasformato in un punteggio, in base alla disabilità di chi saltava (e così il giapponese Yamamoto con 5.95m arrivò prima del cinese Wang, che ottenne 6.27m); a Parigi 2024, nel salto in lungo categoria T64, gara del quarto alloro di Rehm, il sudafricano Mpumelelo Mhlongo ha fatto il record del mondo nella sua classe, la T44, ma è arrivato quinto, dietro tutti quelli della T64 che avevano saltato più di lui. E T64 e T44 saltano nella stessa categoria, senza fattori di conversione, sebbene la prima sigla indichi chi è amputato a una gamba sotto al ginocchio, mentre la seconda indica chi le sue gambe ce l’ha, ma ha una disabilità che ne limita le funzioni motorie.3

Finale aperto.
Non so quanto la proposta qui contenuta sia originale o quanto lo sia stato il parallelismo proposto tra atleti e atlete che hanno delle prestazioni ritenute non standard, rispetto alla categoria di riferimento, a causa di supposti vantaggi. Siano essi meccanici, ormonali o costituzionali.
Di certo, i cosiddetti disability studies hanno trovato il loro spazio negli studi accademici ben prima dei gender studies, pur essendo accomunati dalla stessa tensione verso la creazione di una società che dia a tutte le persone la possibilità di autodeterminarsi. Il fatto è che, in ambito sportivo, l’autodeterminazione per sportivi e sportive con disabilità ha preso un significato decisamente diverso dopo il 2012: l’ultimo anno in cui ha brillato la stella Pistorius, che lottava per vedersi riconosciuto il diritto di gareggiare con i “normodotati”; il primo anno in cui la Paralimpiade è stata trattata mediaticamente come evento a sé stante, degno di attenzione.
Invece, per le atlete intersex e M2F autodeterminarsi vorrebbe dire potersi iscrivere nella categoria donne, senza essere sottoposte alla tortura psicologica degli attacchi social e, per le prime, anche senza essere costrette a fare terapie ormonali per limitare la naturale produzione di testosterone. Per questo di uno spazio a loro riservato, di una categoria ad hoc, come quella open provata da World Aquatics nel 2023, non sanno proprio che farsene. Ed è questo il motivo per cui per il CIO le vicende di un Rehm o di una Semenya sono questioni molto distanti tra loro.