La distanza tra Olimpiadi e Paralimpiadi.
La Paralimpiade di Parigi 2024 ha avuto un grande successo mediatico, confrontabile con quello dell’Olimpiade che negli stessi luoghi l’ha preceduta qualche settimana prima. La distanza tra le due grandi manifestazioni multisportive si sta via via riducendo, gli analisti sono tutti d’accordo.
I dati, del resto, parlano chiaro:

  • Due milioni e mezzo di biglietti venduti. Era andata meglio (2.7 mln di spettatori) solo a Londra 2012, la prima volta in cui i Giochi paralimpici non furono trattati come un evento secondario rispetto a quelli olimpici
  • Ciascuno dei 22 sport del programma ufficiale ha avuto la sua parte di trasmissione in diretta 
  • Paralimpiade visibile in TV in quasi tutto il mondo, grazie all’acquisto dei diritti da parte di broadcaster multinazionali operanti nel settore (vedi la sudafricana Supersport che trasmette in tutta l’Africa) o delle reti nazionali, evidentemente interessate a non perdere le vittorie dei propri atleti. Non mi riferisco solo alla Rai, alla cui retorica patriottica nelle grandi manifestazioni siamo assefuatti, ma anche, ad esempio, alla TV nazionale uzbeca, che mi ha permesso di vedere un po’ di gare, di sfuggita (ero lì, in Uzbekistan, in viaggio)

Accanto alla volontà di portare la Paralimpiade sullo stesso piano dell’Olimpiade, da un punto di vista della visibilità, il Comitato paralimpico internazionale (IPC) ha l’obiettivo -parallelo e complementare- di normalizzare la narrazione degli atleti e delle atlete paralimpiche.

Tante persone, nelle settimane che precedevano la Paralimpiade parigina, si saranno imbattute sui social nel post di Bebe Vio che diceva

Io non parteciperò alle Paralimpiadi di Parigi 2024. Gareggerò

Un post azzeccatissimo che, giocando sull’allarmismo indotto dalla prima frase (E adesso senza Bebe, come fa l’Italia a vincere 70 medaglie?), metteva in rilievo come molto spesso dai media alla persona non “normodotata” sia concesso solo di partecipare e non di gareggiare, ovvero di presenziare a un evento sportivo di alto livello “nonostante-tutto”, cioè nonostante la disabilità che l’ha colpita e limitata.
Il post della schermidrice azzurra era, in realtà, lo slogan di una campagna lanciata proprio dall’IPC, di cui Vio era una delle testimonial. Come spiega bene Francesco Caremani su The Sportlight, è il sintomo di un cambio di rotta nel tipo di comunicazione che il Comitato paralimpico auspica/richiede/pretende: niente pietismo, niente più insistenza sull’idea che chi riesce a emergere nei parasport è un supereroe (si basava su questo nel 2012 la campagna pubblicitaria di Channel 4, broadcaster ufficiale della Paralimpiade londinese), ma accento sull’agonismo. Perché i concorsi che assegnano medaglie sono gare a tutti gli effetti.
Inoltre, in fatto di normalizzazione, non si deve dimenticare che, nel corso della cerimonia di apertura dell’Olimpiade parigina, proprio Bebe Vio era tra le modelle e i modelli che hanno inscenato sul Trocadero quella sfilata, strabordante di identità altre e corpi non conformi agli standard estetici imperanti, che tanto ha fatto arrabbiare le destre d’Europa.

Markus Rehm, Oscar Pistorius.
Markus Rehm
è un saltatore in lungo tedesco, classe 1988. A Parigi ha vinto l’oro nella categoria T64, che identifica coloro che hanno una amputazione al di sotto del ginocchio. Alla non più verde età di 36 anni, sportivamente parlando, ha piazzato un balzo di 8.13m, che nella finale olimpica di due settimane prima gli sarebbe valso il sesto posto. Però, nel giugno del 2023, all’International Para Athletic meeting di Rhede, ha saltato 8.72m, misura che l’attuale campione di tutto (olimpico, mondiale, europeo) Miltiades Tentoglou non ha mai ottenuto in carriera!

La prestazione. Una gara non è tale se di mezzo non c’è un punteggio, un tempo, una misura che certifichino che l’atleta X è andato/a meglio dell’atleta Y. Il record, in seconda battuta, permette di confrontare tra loro risultati ottenuti in tempi e luoghi diversi e di stabilire quale sia stato il migliore in assoluto. E lo sport moderno non può prescindere dal record, come per primo ha intuito lo storico Allen Guttmann.
Nei primi anni Duemila abbiamo avuto un po’ tutti la percezione che l’elevamento a status di atleta “vero”, per chi si dedica a specialità paralimpiche facilmente misurabili, passasse per il confronto con il record stabilito dai “normodotati”1. In quel periodo Paralimpiade voleva dire, essenzialmente, Oscar Pistorius, il velocista sudafricano che sui 400m piani nella categoria T44 sbaragliava la concorrenza e faceva tempi che ai Giochi olimpici non lo avrebbero fatto sfigurare.
Pistorius, che ha entrambe le gambe amputate sotto al ginocchio, aveva ingaggiato una battaglia con il CIO per vedersi riconosciuto il diritto a partecipare all’Olimpiade di Pechino, prima, e a quella di Londra, in seconda battuta. Nel primo caso gli era andata male, perché una serie di test condotti nel novembre 2007 all’Università di Colonia dall’equipe del professore di biomeccanica Peter Brüggemann sotto la supervisione della IAAF2 avevano stabilito che le protesi meccaniche con cui Pistorius correva gli garantivano dei vantaggi significativi.
Il velocista sudafricano era subito ricorso in appello al Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) di Losanna, forte di una nuova serie di test svolti a Houston, che mostravano come le stesse protesi lo svantaggiassero in partenza e in fase di curva, bilanciando l’eventuale vantaggio in rettilineo su cui si erano concentrati esclusivamente quelli di Colonia. Il tribunale di Losanna gli aveva dato ragione, la IAAF aveva dovuto ritirare il divieto di partecipazione alle Olimpiadi, ma per Pechino 2008 era ormai tardi.  
Quattro anni dopo, a Londra, Pistorius ci andò in doppia veste: eliminato in semifinale della gara olimpica dei 400m, ma felice di aver vinto la sua lunga battaglia; oro nella gara paralimpica dei 400m nella categoria T44 e altrettanto felice.3

Tutto l’hype che si era creato intorno al personaggio e il vento in poppa per il riconoscimento dei cosiddetti blade runners si interruppe, però, di botto il 14 febbraio 2013, quando il velocista sudafricano uccise in casa la sua compagna, la modella Reeva Steenkamp, per di più cercando di far passare il femminicidio come una fatalità4.

Uno come Markus Rehm, dall’improvvisa eclissi della stella Pistorius non ne ha certo tratto beneficio. A Londra 2012 c’era anche lui, alla Paralimpiade, intendo; anzi, colse lì il primo dei suoi quattro ori consecutivi nel lungo, precisamente nella categoria F44 (sulla modifica delle categorie paralimpiche tornerò successivamente). La voglia di partecipare ai Giochi a cinque cerchi, forse, nacque in quel frangente. Fatto sta che nel 2014, a Ulm, saltando 8.24m, Rehm si portò a casa il titolo nazionale tedesco assoluto, battendo anche i “normodotati”; questo mise in preallarme la European Athletic Association (EAA) che chiese alla IAAF di prendere una decisione in merito e di autorizzarne, eventualmente, la partecipazione all’imminente Europeo di Zurigo. Finì che fu la federazione nazionale tedesca a tornare indietro sui suoi passi e a decidere di non includere Rehm tra i convocati, citando rilevazioni di carattere biometrico fatte a Ulm, ovvero durante la competizione! La vicenda non ebbe tutta la risonanza mediatica avuta da quella di Pistorius, anche perché, evidentemente, il lunghista non aveva la possibilità di assoldare «uno dei più grossi studi legali statunitensi»5

Al Campionato tedesco dell’anno successivo Rehm fece nuovamente segnare la miglior misura nel salto in lungo, ma non vinse il titolo perché gareggiava fuori concorso; fece poi una comparsa al meeting indoor di Glasgow nel febbraio 2016 (anche qui gara vinta), poi tornò a dedicarsi solo alle manifestazioni per atleti paralimpici.
Vero è che, come sottolineato in precedenza, l’ottica, con cui si narrano le Paralimpiadi, è cambiata negli ultimi anni, tanto che adesso si è cementata nei singoli atleti e nelle singole atlete una sorta di orgoglio paralimpico e, quindi, non si sente più la necessità di inseguire il riconoscimento degli “altri” attraverso la dimostrazione che si è in grado di offrire prestazioni sportive da “normodotati”… Tuttavia, non si può ignorare il fatto che Markus Rehm sia stato rifiutato da un mondo che non si era neanche interessato a studiare in che modo il saltatore tedesco potesse essere incluso e demandava allo stesso Rehm, il diverso, l’onere di produrre le prove che potessero giustificare la sua inclusione.   

Mumble, mumble… Dove l’ho già sentita una storia simile?

E alla fine di questo lungo articolo, siamo pronti/e per la seconda parte?

Nell’immagine in evidenza: Markus Rehm durante la Paralimpiade di Tokyo.