Senza giri di parole: nel 2024 il ciclismo femminile ha offerto corse più emozionanti di quelle offerte dal ciclismo maschile.
Dello sport della bicicletta sono un fruitore atipico e non mi ritengo un esperto; non accompagno la pratica televisiva a quella sportiva; ho iniziato a vedere con più costanza le gare femminili dal 2020, alcuni anni dopo essermi riaccostato con una certa continuità a classiche e giri vari. Anche se, almeno in merito a questo ultimo punto, mi sento a posto: quando Marta Bastianelli vinse il Giro delle Fiandre del 2019 non c’erano immagini Rai a testimoniarlo e, ancor oggi, solo Discovery+ copre l’UCI Women’s World Tour a dovere.
Ad ogni modo, come a suo tempo apprezzai l’assolo di 54km Peter Sagan alla Roubaix (correva il 2018), così comprendo la bellezza e la difficoltà delle tante azioni solitarie che Pogačar ha offerto da marzo a ottobre, dalle Strade Bianche fino al Mondiale e al Lombardia passando per Liegi, Giro, Tour, Montréal. Qui, però, sto parlando di un’altra cosa, sto parlando di spettacolarità che deriva da una corsa in cui l’esito è incerto, in cui il campione o la campionessa di turno non ha la strada spianata verso il successo, deve combattere fino alla fine e non è detto che vinca.
Ora, non so quale percorso avete scelto, se avete cliccato o meno sullo spiegone addotto. Il fatto stesso che mi sia sentito in dovere di includere il suddetto spiegone è, però, indice di come anche io risenta fortemente di una narrazione dello sport che ritiene in automatico il ciclismo (e altre discipline) più spettacolari, più emozionanti se ad agire sono uomini. Vizio che è poi alla base del pressupposto/preconcetto che usano media e tv per non dare il giusto spazio a ciò che offrono gli sport al femminile. Persino in presenza di vittorie azzurre. Perché nelle gare su strada che contano, negli ultimi tre anni (ma si potrebbe andare anche più indietro), Longo Borghini, Balsamo, Cavalli, Realini e le altre cicliste azzurre hanno messo insieme più successi e più piazzamenti dei colleghi maschi1.
Nel mese di ottobre 2024, pur in presenza di orgoglio nazionale da poter sfoggiare o riabilitare, si è registrato un altro emblematico caso di disomogeneità, che il blogger Mirko Rimessi ha saputo descrivere perfettamente. Mi riferisco al successo ottenuto «nel “buio” assoluto dei media, finale compresa» dal Luna Rossa women’s team alla prima Women’s America’s Cup giusto otto giorni dopo la sconfitta decisiva rimediata nelle finali di Louis Vuitton Cup dal Luna Rossa team (quando non c’è l’indicazione del genere, vuol dire che sono tutti maschi!). La cosa davvero deprimente è che gli eventi si sono entrambi svolti a Barcellona, nello stesso campo di gare, solo che la competizione che designa chi è andato poi a sfidare i detentori dell’America’s Cup è stata seguita passo passo in diretta da Sky e notizie sulle undici comode regate di finale contro Ineos si potevano apprendere real-time consultando anche testate non specializzate in eventi sportivi; mentre dell’esistenza della Women’s America’s Cup «lo scopriamo a trofeo alzato, dopo che per i maschi si sono costruiti palinsesti e scalette per giornate [intere]»!
Come spesso capita, una considerazione se ne porta dietro subito un’altra. Di vela sono ancor meno esperto che di ciclismo e ringrazio Lorenzo Longhi per aver dato un senso al perché del mio distacco nei confronti di Azzurra, Moro di Venezia e lune rosse varie. Tuttavia, chi, magari su questo blog, ha letto qualcosa sulla storia della vela all’Olimpiade, sa che le regate sono state tra i primi eventi sportivi a cui le donne hanno avuto accesso. Perché la vela per sua natura era una disciplina più open rispetto al genere di tante altre (ma molto meno rispetto alla classe sociale di appartenenza). La stessa America’s Cup ha visto delle presenze femminili tra gli equipaggi, la prima addirittura nel 1886. Anzi, nel 1995, una delle barche statunitensi che partecipò alle regate dei Defender, Mighty Mary, aveva una crew interamente femminile2.
L’esperienza di Mighty Mary è rimasta, però, un unicum. Da anni i vertici dello sport internazionale spingono affinché lo spazio di competizione riservato alle donne venga aumentato in tutte le discipline e la più antica competizione internazionale al mondo non poteva restare a lungo insensibile a questa direttiva. Ecco allora Grant Dalton, il CEO di New Zealand -team vincitore dell’America’s Cup 2021 e, pertanto, deputato a organizzare la nuova edizione della coppa-, creare una versione Women’s del trofeo, accanto a quella “dei grandi”3. Una condizione di subalternità che caratterizza anche l’altra disciplina nominata in questo articolo, il ciclismo. Tra le grandi classiche, solo la Parigi-Roubaix si disputa in un giorno diverso (sabato) da quello della gara maschile (domenica), mentre, ad esempio, in piazza del Campo a Siena per le Strade Bianche le donne arrivano verso le 12:30-13:00, servite come antipasto alla gara maschile che termina verso le 16:30. E il condizionamento vale anche a distanza: le tappe del Giro women’s 2024 si concludevano con il sole alto delle 14:30-15:00 perché poi c’era da dare spazio al Tour de France maschile.
Ora, se il modello di sviluppo dello sport al femminile è quello di copiare per le donne, in formato più ridotto, ciò che avviene a livello maschile e di renderlo subalterno a esso, è dunque inevitabile che queste non avranno mai lo stesso spazio riservato agli uomini? E i veri stupidi siamo io e gli altri o le altre che come me continuano a sottolineare questa disomogeneità e a non accettarla?
Nell’immagine in evidenza: Lotte Kopecky vince la Parigi-Roubaix 2024 davanti a Elisa Balsamo