La prima parte dell’analisi la trovate qui: Parità di genere a Parigi 2024? Diamo i numeri.
Il seguente tema è anche oggetto della chiacchierata fatta con lo storico dello sport Nicola Sbetti in occasione della 13° puntata di A Gamba tesa – Road to Paris che trovate qui su Youtube  

Quali gare per quali modelli?
A partire dai Giochi estivi di Città del Messico del 1968 le gare di tiro a volo erano diventate open. A Barcellona 1992, tra fossa olimpica e skeet, si iscrissero una decina di donne, a fronte dei più di cento tiratori uomini. A sorpresa, la cinese Shan Zhang, si permise il lusso di sbaragliare tutta la concorrenza maschile nello skeet. Era la prima volta che una donna conquistava una medaglia olimpica, per di più d’oro, nel tiro a volo e allora il CIO accelerò per separare le gare, lasciando ai soli uomini le specialità storiche e dando alle donne la possibilità di misurarsi ad Atlanta 1996 in un nuovo concorso, il double trap. Con la conseguenza paradossale che la campionessa olimpica in carica dello skeet non poté difendere il suo titolo perché questioni di genere ne impedivano l’iscrizione.
Difronte alla scelta tra istituire competizioni femminili, dando alle tiratrici la certezza di poter ambire a un successo olimpico, e far rimanere open la disciplina, investendo magari sulla formazione delle atlete in modo da far progressivamente aumentare nelle grandi manifestazioni il numero di donne in gara potenzialmente vincenti, i vertici dello sport olimpico non ebbero dubbi. Via per la prima strada, la più immediata e la più funzionale all’ottica neoliberista abbracciata ormai dagli anni Ottanta. Ottica secondo cui:

  1. Cura per l’immagine che si dà all’esterno (anche in termini di inclusiività) e diffusione del brand “Olimpiade” sono fondamentali per attrarre nuovi investimenti e far crescere l’intero movimento sportivo;
  2. Gender equality vuol dire pari opportunità di successo, pari possibilità di ottenere visibilità.

 

La Raccomadazione 11 ha, dunque, definitivamente certificato l’inserimento del mondo sportivo femminile in un ingranaggio in cui equità e miglioramento del brand si possono perseguire insieme perché:

  • maggiore è il numero sport femminili che chiedono un riconoscimento ufficiale, più il mondo olimpico deve apparire inclusivo, migliore sarà l’immagine che esso darà all’esterno;
  • più concorsi con le donne protagoniste vengono ideati, più atlete risulteranno vincitrici, più ragazze che fanno sport possono aspirare a vincere in futuro, più persone si interesseranno alle Olimpiadi.

 

Questa dinamica taglia fuori qualsiasi velleità di aumentare nelle grandi manifestazioni internazionali gare che promuovano una sorta di equità di fatto, permettendo un diretto confronto tra donne e uomini, e che, quindi, agiscano sulle discriminazioni di genere in ambito sportivo provando a grattar via un po’ di quella doratura che da sempre circonda lo sport maschile.
Insomma, al di là degli indubbi aspetti positivi, questi mixed-gender team events ripropongono il binarismo uomo/donna a un livello meno visibile, ma ugualmente influente.
A subire le conseguenze di questo modo di declinare la gender equality perseguito dal CIO sono, infatti, coloro che rientrano più difficilmente nelle uniche due categorie sportive veramente riconosciute, il maschile e il femminile.

Se, infatti, i vertici dello sport mondiale promuovono una sorta di equità di diritto tra queste due categorie, parificando il numero di gare riservate all’una e all’altra e inserendone altre in cui si coopera per un fine comune, e, quindi, se più che in passato le atlete hanno possibilità di arrivare a risultati di rilievo e a una maggiore visibilità, ecco che chi non riconosce in una atleta intersex o transgender M2F i canoni estetici femminili, considera queste dei maschi (tertium non datur) e, come tali, usurpatrici di successi, riconoscimenti e carriere future di povere ragazze che seguono, invece, le regole. E chi bara non ha neanche diritto ad avere una propria dimensione psicologica.

Semenya, Hiltz, Thomas: cronache di genere del terzo tipo.
Le cronache di genere del terzo tipo raccontano di tante atlete che a Parigi 2024 non ci potranno essere per regole introdotte dalle singole federazioni internazionali a cui, di fatto, il CIO ha demandato le scelte in merito, e di qualche atleta che, invece, ci sarà.

Caster Semenya è la prima che viene in mente. L’atleta intersex sudafricana, che tra il 2009 e il 2017 ha vinto tre ori mondiali e due olimpici negli 800m, dal 2019 non può più gareggiare nella sua distanza preferita perché World Athletics e il suo presidente Sebastian Coe hanno reinserito dei pesanti paletti. Semenya tra il 2010 e il 2014 si era sottoposta a una sorta di doping al contrario per far diminuire la sua naturale concentrazione di testosterone nel sangue; a trenta anni e più ha scelto di non prestarsi nuovamente a trattamenti di questo tipo e ha preferito intraprendere vie legali per vedere riconosciuto il suo diritto a gareggiare liberamente nella specialità che ritiene più opportuna.
A luglio 2023 la European Convention on Human Rights (ECHR) ha riconosciuto il fatto che la sudafricana è stata vittima di discriminazione. Una decisione simbolica, non vincolante; nondimeno, le autorità svizzere (controparte del processo) supportate da World Athletics hanno presentato appello. Il risultato è che Semenya, per proseguire la sua azione legale, ha chiesto aiuto e ha aperto una pubblica sottoscrizione di fondi.
Intanto, l’ineffabile federazione internazionale di atletica ha ulteriormente ridotto la possibilità di accesso alle gare per le donne che hanno un livello di testosterone naturalmente alto e così la giovane namibiana Masilingi, argento nei 200m a Tokyo 2020, è sparita dai radar. Da un giorno all’altro.

Lia Thomas è, invece, in aperta lotta contro World Aquatics, presieduta dal kuwaitiano Al Musallam. Due anni fa la storia sui media mainstream è passata più o meno così: atleta che una volta era un uomo vince il campionato universitario NCAA battendo una campionessa olimpica, tutte protestano.
Al netto del fatto che -ovviamente- le cose non stanno esattamente così, dalla distanza non olimpica della gara al fatto che una buona parte delle atlete battute non aveva preso la sconfitta come un’usurpazione, la federazione che si occupa delle discipline acquatiche ha sfruttato l’occasione per introdurre una regola che vieta di partecipare a gare femminili a chiunque non abbia fatto la transizione prima della pubertà.
Laciando da parte il dibattito scientifico connesso alla questione (secondo alcuni studi non ci sono evidenze in merito a vantaggi, secondo altri sì), trovo grave che una federazione sportiva abbia introdotto una netta discriminazione di genere propagandando il tutto come una difesa della “fair competition” nel settore femminile. World Aquatics ha provato poi a mettere una toppa, ma l’introduzione, dall’alto, di alcune gare riservate a una terza categoria, chiamata open, senza coinvolgere nella decisione chi in quella categoria avrebbe potuto concorrere, si è rivelata fallimentare: nella prima tappa di Coppa del mondo in vasca corta (ottobre 2023) nessun@ si è iscritt@ a queste gare e la cosa non è stata riproposta. Del resto, la federazione internazionale non ha mai mostrato di porsi il problema di quale dimensione psicologica ci sia dietro una transizione di genere; anzi, le sue prese di posizione sembrano veicolare l’idea che Thomas abbia fatto apposta a diventare donna così può vincere l’oro nei 400m misti all’Olimpiade!

Chiudo con Nikki Hiltz, mezzofondista statunitense già medaglia d’argento nei 1500m al Mondiale indoor del 2024. Nonostante il grande risultato ottenuto in inverno, la loro presenza a Parigi 2024 è diventata certa solo dopo la vittoria ai Trials a inizi luglio, come da sempre accade negli States.
Hiltz sarà così la seconda atleta dichiaratamente non binary/genderfluid a partecipare a una Olimpiade, la prima in una disciplina individuale; anzi, saranno, perché il loro essere trans-gender nel senso di “al di là dei (due) generi (usualmente riconosciuti)” impone l’uso dei pronomi al plurale1. Qua, attenzione, si è di fronte a un@ atleta che è “eleggibile” per la categoria femminile, perché la sua concentrazione di testosterone non viola le restrittive imposizioni di World Athletics, ma che percepisce sé come un qualcosa di diverso e che ha fatto pubblicamente coming out all’International Transgender Day of Visibility del marzo 2021. Insomma, una persona che potrebbe davvero essere interessata alla creazione di una categoria open, differentemente da una Lia Thomas che, invece, si è sottoposta a una transizione M2F pur di sentirsi donna. Eppure, per riferirsi a entrambi i casi, i media usano principalmente la parola contenitore “transgender”. 
E, forse, è il linguaggio lo scoglio più grande per il riconoscimento dell’esistenza di tante altre identità di genere del terzo, quarto, quinto tipo…

Nell’immagine in evidenza: Nikki Hiltz vince i 1500m femminili agli US Trials (luglio 2024)