In semifinale aveva fatto già intravedere il suo potenziale, ma la superiorità che mostra in finale è davvero impressionante: la semisconosciuta diciottenne sudafricana Caster Semenya taglia, infatti, il traguardo con due secondi e mezzo di vantaggio sul resto delle ragazze del lotto, che in volata decidono chi la affiancherà sul podio iridato. Già, perché, a dispetto del distacco inflitto alle altre, Caster non ha vinto una gara qualsiasi, ma gli 800 metri al Mondiale di atletica leggera di Berlino.
È il 19 agosto 2009. Tra le “altre” anche un’italiana, Elisa Cusma, che giunge sesta, a un niente dal bronzo, e davanti ai giornalisti spara a zero contro la vincitrice: «Quella è un uomo. La presenza di questa gente falsa le gare». La mezzofondista azzurra non è la sola a fare illazioni sul sesso “reale” della Semenya, che per la Gazzetta dello Sport è già diventata «la ragazza-mistero».
In realtà, di misterioso c’è ben poco, salvo la scarsa conoscenza dell’argomento. Caster è, infatti, una intersex, la condizione in cui si trova una persona che alla nascita presenta cromosomi o genitali con caratteristiche intermedie. La sudafricana è, quindi, colpevole di essere doppiamente non conforme, di avere un corpo che non rientra in modo “naturale” in nessuna delle uniche due categorie che il mondo sportivo, a livello agonistico, riconosce: maschile e femminile.
La fragilità di un meccanismo, che pretende di definire la femminilità con dei parametri misurabili, viene ben presto a galla: solo nell’estate del 2010 la Federazione Internazionale conferma la legittimità del titolo vinto dalla sudafricana a Berlino e le consente il ritorno alle gare, a patto, però, che segua una terapia ormonale.
L’apice della farsa si raggiunge al Mondiale del 2011 e all’Olimpiade del 2012, quando la Semenya, sotto “cura” per limitare le sue prestazioni, è battuta dalla russa Savinova, che sarà squalificata per aver assunto sostanze che ne miglioravano le prestazioni.
Tra il gennaio 2016 e l’ottobre 2018, a seguito di una controversia sollevata da un’altra atleta con elevato tasso di testosterone, Caster ha la possibilità di allenarsi senza doparsi al contrario e conquista secondo oro olimpico e terzo oro mondiale direttamente sul campo. Poi vengono imposte nuove regole, ancora più restrittive, e la sudafricana, stufa di sottoporre il proprio corpo alle violenze di una terapia, abbandona il mondo delle gare e inizia una battaglia legale.
Difficile capire quale sia la strada maestra per «garantire a ogni atleta la possibilità di gareggiare in una competizione equa tutelando al contempo le differenze e i diritti umani di tutti». In ambito sportivo è, però, «in gioco lo stabilire se la divisione binaria dei sessi abbia senso o sia troppo semplicistica date le tante evidenze scientifiche e sociali che dimostrano una complessità in materia». Il fatto è che, di fronte al problema del gender gap tra uomini e donne, il Comitato Olimpico propone strategie che in direzione di un rafforzamento di questa divisione binaria e non verso una sua messa in discussione.
Fonti: E. Virgili, Olimpiadi. L’imposizione di un sesso, Mimesis, Milano, 2012.
“Sportweek”, anno 20, n.°27, 6 luglio 2019.
Da Chiaroscuro n° 59, dicembre 2020