L’autunno d’oro del tennis.
Quello che stiamo vivendo è un autunno d’oro per il tennis azzurro. Al bar, in strada, nella propria cerchia di amici i discorsi sportivi non sono monopolizzati da questioni calcistiche perché si parla -e molto- dei successi di Jannik Sinner, primo italiano a diventare numero uno in classifica, a vincere due Slam in una stagione e a trionfare nelle ATP Finals (tra l’altro, in casa, a Torino), nonché (possibile) trascinatore dell’Italia in Coppa Davis.
La Rai si frega le mani perché ha scelto di investire sul tennis e ha rivoluzionato il palinsesto per non perdersi neanche uno scambio di un italianO. Con la “O” maiuscola, perché solo sul canale specializzato Supertennis TV appassionati e appassionate hanno potuto seguire in chiaro le gesta di Jasmine Paolini, Sara Errani, che, prima, hanno lottato senza successo alle WTA finals di Riyadh e poi, con la casacca azzurra e grazie al decisivo contributo di Lucia Bronzetti, hanno vinto trionfalmente la Billie Jean King Cup, il massimo trofeo mondiale femminile a squadre. Risultati che alimentano ancor di più la sensazione che si stia davvero vivendo un momento d’oro e fanno crescere la speranza che le cose in futuro cambino: perché la minor copertura dello sport femminile è un dato di fatto, ma fruitori e fruitrici non smettono di sottolinearlo sui social e anche Whoopi Goldberg, oltreoceano, si è stufata.    

C’è, però, un aspetto su cui si sono spese poche, pochissime parole, senza approfondirne le implicazioni sociali: il fatto che l’autunno tennistico sia stato d’oro anche per l’Arabia Saudita, non certo in termini di tornei vinti o di guadagni (anzi, sono gli arabi ad aver messo i soldi, tanti soldi), ma in termini di ritorno d’immagine. Lo sport della racchetta è, infatti, ufficialmente entrato nella nutrita schiera delle discipline che aiutano la famiglia Bin Salman a veicolare all’esterno la narrazione della monarchia del Golfo Persico come di un Paese moderno, tecnicamente all’avanguardia, che sta facendo passi avanti verso il miglioramento della condizione femminile. In pratica, usando una parola ormai abusata, aiutano i regnanti arabi a fare “sportwashing”.   

Le tenniste a Riyadh. 
Mentre Sinner sta schiantando Ruud nella semifinale delle ATP Finals, il telecronista Rai ricorda che l’altoatesino, giusto qualche settimana fa, ha incassato sei milioni di dollari grazie al successo nel Six Kings Slam. L’accento è sul notevole guadagno, visto che poi la cifra viene messa a confronto con i cinque milioni circa che Sinner si porterebbe a casa vincendo a Torino, e non sul fatto che, con la scusa di un torneo di esibizione (riservato -appunto- a sei soli tennisti), l’Arabia Saudita ha posto solide basi per entrare nel giro dei tornei più importanti del circuito maschile1. Né sul fatto che già da quest’anno gli arabi hanno ospitato le WTA Finals a Riyadh, ovvero il torneo ufficiale riservato alle otto migliori tenniste della stagione. 
Come detto, nella capitale araba c’era anche Paolini. L’azzurra, dopo aver posato con la coppa e le altre sette finaliste in lunghissime ed elegantissime vesti, ha dichiarato in conferenza stampa:

Penso [che giocare qui] possa fare bene a questo Paese perché è una competizione femminile con le migliori donne del mondo a praticare questo sport. 

E se non era pensabile che dalla bielorussa Sabalenka arrivassero critiche a un regime autoritario, alla fin fine anche quanto detto dalla americana afrodiscendente Coco Gauff non ha messo in discussione il fatto che possa diventare un’opportunità il recarsi a giocare in un Paese, in cui l’omosessualità è reato e le donne sono per legge inferiori agli uomini:

I would be lying to you if I said I had no reservations. […] One of the things I said, if we come here, we can’t just come here and play our tournament and leave.

Giusto per essere chiari, non ho riportato queste dichiarazioni a mo’ di accusa verso le tenniste, tacciandole, magari, di non essere in grado di prendere una decisa posizione contro un mondo sportivo che si riempie di belle parole come “empowerment” o “equality”, quando parla di discipline al femminile, ma poi non fa una piega a incassare soldi che arrivano da Paesi in cui i diritti di genere sono calpestati.
Al contrario, le incerte considerazioni di una Coco Gauff, che ai tempi di Black Lives Matter, nel 2020, non esitò a esporsi, sono a parer mio motivo per avvalorare quanto invece fatto da cento e più calciatrici proprio nel corso dell’autunno 2024: una lettera aperta contro la FIFA, rea di aver sottoscritto accordi commerciali con gli arabi (sempre loro), che prevedono, tra l’altro, che Aramco, la compagnia petrolifera di Stato, sia lo sponsor principale della prossima Coppa del Mondo femminile del 2027.

Le calciatrici contro Aramco.
È una vera presa in giro, hanno pensato Sofie Junge Pedersen (danese, ex Juventus, ora all’Inter, nota per le sue posizioni ambientaliste) e le altre cento calciatrici professioniste firmatarie, tra cui spiccano i nomi di Linari, Miedema e della canadese Fleming. E già il titolo scelto per la rabbiosa missiva indirizzata il 21 ottobre a Gianni Infatino, FIFA Strasse 20, Zurigo, Svizzera, lo vuole sottolineare:

Aramco sponsorship is a middle finger to women’s football
La sponsorizzazione con Aramco è un dito medio nei confronti del football femminile 

Il contenuto non è da meno, visto che la lettera non dimentica di ricordare al governo mondiale del pallone molte “criticità” che riguardano l’Arabia Saudita e il petrolio di Aramco: elenca le attiviste per i diritti delle donne attualmente in prigione; rammenta che il regime criminalizza le unioni omosessuali e che molte delle calciatrici di alto livello fanno parte della comunità LGBTQ+; fa notare come i combustibili fossili siano i maggiori responsabili del riscaldamento della Terra e dei cambiamenti climatici, che hanno influenze pessime anche sui campi da gioco e sul gioco stesso.
Alle accuse segue la proposta di istituire una commissione di atlete che possa avere voce in capitolo su quali marchi associare o meno al football al femminile. 

Già in occasione del Mondiale di Australia e Nuova Zelanda del 2023, su pressione delle federazioni delle nazioni organizzatrici, la federazione internazionale aveva dovuto fare marcia indietro e rinunciare alla sponsorizzazione di Visit Saudi, l’agenzia governativa dell’Arabia Saudita che si occupa di promuovere il turismo verso il paese dei Bin Salman. Questa volta, temo che il braccio di ferro, se ci sarà, sarà molto più lungo e duro da vincere perché, nel frattempo, la FIFA è diventata una cheerleader del governo arabo, riprendendo una frase usata nella lettera indirizzata dalle calciatrici a Infantino. O, peggio, come sospetta Barney Ronay del Guardian, si è ormai definitivamente trasformata in una agenzia internazionale che promuove essa stessa la schiavitù, visto che ha praticamente regalato a Riyadh l’organizzazione del Mondiale maschile del 20342.

Tutto questo non fa che rendere ancor più significativa la presa di posizione di Pedersen e colleghe perché, mentre tennis e tenniste, attualmente, senza i soldi dei Bin Salman sopravviverebbero lo stesso, la FIFA dipende ogni giorno di più dai Paesi del Golfo e lo sviluppo del calcio al femminile è legato a doppio-triplo filo all’idea di football che perseguono a Zurigo già da un bel po’. In che senso proverò, però, a spiegarlo un discorso a parte.